La scorsa settimana ci ha lasciati don Giuseppe Stoppiglia, "prete e viandante", come egli ha sempre amato definirsi e fondatore dell'Associazione "Macondo". Noi, che abbiamo avuto la fortuna di conoscerlo e di attingere alla ricchezza della sua personalità, proponiamo due scritti che ci sembra ben rappresentino la grande testimonianza umana e spirituale che egli ci ha donato.
MALE
Assumere il proprio male come si assume una malattia o un difetto, per limitarlo con l’autocontrollo e opporgli antidoti di bene. Il male è centripeto, introverso: orgoglio, volontà di potenza, dominio. Considera gli altri come estranei oppure degli ostacoli. Il bene procede diversamente: si rivolge agli altri con attenzione, li valorizza, li rispetta, li aiuta, è dono, servizio, cura. Lavora a rovescio , infatti, è colui che lavora per il bene comune, più che il proprio. E’ differente all’estroverso, il quale di solito non si guarda dentro, non si esamina, non conosce se stesso. Giuseppe - prete e viandante.
"Lavorare bene è prendersi cura degli altri"
(dal n. 84, dicembre 2011 di Madrugada, rivista peridica dell'Associazione Macondo)
Occorre arrivare, perciò, al nucleo spirituale delle persone, alla profondità delle loro anime, per far capire che la realizzazione di sé non è solo un fatto esteriore di successo e di riconoscimento, ma è un fatto affettivo di intensità di relazione tra le persone con le quali si sta. Non per costruire un esercito di altruisti (anime belle), ma per avere persone più ricche di sé, più sicure, meno invidiose e con meno ansia di successo: questo recupero dell’interiorità si realizza solo tenendo insieme tutti i fili della propria vita con coerenza e cercando di far bene il proprio lavoro.
Far bene il lavoro? Anche se alla fine ogni risultato è inferiore al sogno e al progetto? Certamente, perché non si lavora per il compenso, che è soltanto utile. Non si lavora per l’ambizione, che è vana. Non si lavora per l’illusione di risolvere i problemi, che è stolta, ma perché il mondo e suoi abitanti meritano la nostra cura, meritano che ci spendiamo per trattenerlo dalla rovina e tenerlo orientato alla salvezza e alla bellezza. Sono tanti quelli che fanno bene il loro lavoro (dallo spazzino all’artigiano, dal medico all’insegnante, dal prete al manager). Lo fanno per questo amore e non per calcolo. Perché è bello lavorare bene.
È un’utopia impossibile? No, e i segnali di speranza ci sono. In particolare il ritorno al desiderio di cambiamento, alla ricerca di nuovi orizzonti, a nuovi traguardi, a nuove mobilitazioni. C’è un desiderio, un ardore che brucia dentro di noi nella costruzione di una rete di connessione con gli altri, di un noi che comprenda l’io, senza escluderlo e senza isolarlo. Chissà allora che nel fuoco del cambiamento non prenda corpo e si formi pure quell’etica della responsabilità come antidoto al cinismo e all’indifferenza diffusa.